Con l’avvento della primavera nella tradizione siciliana mentre i pastori ricominciano a salire la montagna; innalzano la capanna di frasche presso la sorgente dell’acqua e intanto che le pecore pascolano, i più giovani escono fuori dei piccoli coltelli, lavorano il legno d’ulivo e lo incidono con figure che serviranno ad ornare le conocchie per colei che tengono in cuore come futura sposa: perché la conocchia secondo un antico costume siciliano era la promessa d’amore. L’accettazione o il rifiuto della conocchia era segno dell’accettazione o del rifiuto d’amore. Le conocchie erano specie di aste rigonfiate al centro, attorno alle quali si arrotolava la lana per filare: venivano ornate con graziosi motivi lavorati a punta di coltello, erano sovente dipinte e portavano in cima una figurina femminile nella quale l’artefice identificava la dolce padrona del suo cuore. Tutto ciò lo dice il canto del pastore:
Cunucchedda d’argentu e di culuri, ca cchiù ti giri e cchiù bella mi pari, mi misiru a disfida du’ pitturi, ca la billizza to vulìanu fari;lu primu ti pittau di rosi e ciuri, l’autru tutta di stiddi a furriari; jittaru li pinnelli e li culuri, la to billizza nun si pò pittari.
spesso la figurina femminile è incoronata perché la donna amata è la regina del cuore: oppure regge in mano una chiave e un cuore: è la chiave del cuore di lui ch’ella domina e nel canto popolare si trasforma in catena:
Catina ca mi teni ‘ncatinatu sciògliri nun mi pozzu cchiù di tia; sugnu luntanu e sugnu a lu to latu nun si’ luntana e si’ sempri ccu mia;si m’arridussi ‘ntra st’affiittu statu certu ca mi facisti magaria; passa lu ventu e sentu lu to ciatu sentu un suspiru e trasu n’ fantasia.
Pieni di poesia erano i doni d’amore che il giovane popolano recava alla donna amata: favi di miele odoroso o un canestro di fichi di Natale o una melagrana aperta in un riso di chicchi vermigli. L’amore che sorgeva forte e silenzioso era tenuto a lungo nel cuore dei due giovani come il più dolce dei segreti, fino al tempo in cui egli, partito per il servizio militare, faceva ritorno al paese:
Matruzza bedda, mannari vi haju ‘ntra dda picciotta di gèniu miu. Dimmillu, la matruzza, ca cci vaju e cci lu dicu ca si figghiu miu…Cci aviti a diri ca senzii nun haju, pi amari a idda di l’occhi nun viju… Chetati, figghiu, ca ora cci vaju,e pi l’amuri to cci penzu iu!
Allora la madre di lui metteva sotto il manto un pettine da tessere e andava a picchiare all’uscio di colei che con un solo sguardo aveva rapito il cuore del figlio:
Sutta ‘n’area d’amuri mi firmai la prima vota ca iu vitti a vui; quannu vi viitti minni nnamurai prima di ss’occhi beddi e poi di vui; quannu ‘ntra ss’occhi fermi vi guardai tuttu l’amuri miu lu misi a vui; quannu lu vostru amuri assapurai scurdari nun mi potti chiù di vui.
Alla madre di lei donava il pettine chiedendo con molte reticenze se poteva ottenere in prestito un pettine uguale. Era l’intesa: era il contratto di nozze delle classi più umili. Tutti i fidanzamenti si compivano con questo rito? Sì, tutti perché allora non c’era famiglia che non avesse telai montati e nessuno avrebbe mai sposato una ragazza che non sapesse tessere. L’arte del tessere è la più diffusa e la più antica nei paesi siciliani: le donne l’apprendevano fin dall’età più giovane anzi dicevano di averla appresa con il latte della madre. Quando andavano spose ricevevano con le cose più utili e più care, un telaio di legno con il quale appena nasceva la prima figlia cominciavano a prepararne il corredo di sposa. Accettata da parte dello sposo la minuta, ovvero tutto ciò che la famiglia della sposa si impegnava di dare in dote alla figlia, si stabiliva la cerimonia della presentazione. Si usava, in molti paesi della Sicilia, che la giovane si faceva trovare seduta al centro della stanza in compagnia dei genitori e dei parenti più prossimi: entrava la suocera, le divideva i capelli e glieli pettinava intrecciandoli con un nastro scarlatto che aveva il nome caratteristico di “nzinga” e che la ragazza avrebbe portato in seguito fino al giorno delle nozze: il costume è caduto in disuso ormai da gran tempo ma un canto popolare lo ricorda ancora:
Comu ‘na principissa siti misa ora ca stati a la seggia assittata lu curuzzu vi batti cu surprisa ca la facciuzza vostra fu ‘nfasciata.
L’uso di intrecciare i capelli della futura nuora era radicato in tutto il popolo della Sicilia e dove il nastro non aveva nome di “nzinga” aveva quello più comune di ” ‘ntrizzaturi” e attorcigliato alla treccia aveva significato di fidanzamento, d’amore, di prossimi sponsali. Così il giovane siciliano ormai sicuro dell’amore di colei che davanti al mondo aveva dichiarato sua promessa sposa, innalzava un canto suggestivo, pittoresco, tutto voli di fantasia sulle bellezze dell’amata:
Jeru pi l’aria li divini aceddi jeru pi sicutannu li faiddi; vui siti la riggina di li beddi e l’avanzati tutti a chisti e chiddi; purtati pompi, scocchi e zagareddi, d’oru lu ‘ntrizzaturi a li capiddi; quannu vi ‘ngurchittati li circeddi nesci la luna, lu suli e li stiddi.
Per i Siciliani la promessa d’amore era sacra e inviolabile: violarla era un affronto che richiedeva gravissima vendetta, appunto perché sacro era l’amore e sacra la famiglia. L’indomani della presentazione il giovane aveva da pensare.. al “complimento” che consisteva nel regalare a lei un agoraio d’argento ovvero un anello o degli orecchini o qualche spillone; del resto, per tutto il tempo del fidanzamento era una continua offerta di doni che egli faceva alla fidanzata e pretesti ne erano le festività religiose: a Pasqua la cassata; per San Pietro la chiave di pasta e miele, per il 2 novembre dolci e frutta secca, per l’Immacolata dei torroni, per l’onomastico una spilla d’oro o una lamina d’argento detta “spatuzza” per fermare i capelli. Così, trascorrevano gli anni, in quanto nelle classi del popolo era costume rimanere fidanzati per anni e anni; trascorrevano lentamente scanditi dalle visite settimanali che il giovane faceva alla promessa sposa, seduto ben discosto da lei e guardato con tanto di occhi dai parenti:
Havi sett’anni ca ti chiamu e aspettu havi sett’anni ca t’aspettu e ‘un veni sett’anni ca ti chiusi ‘ntra stu pettu cu setti toppi e setti milia peni; mi mettu addunu e a li talai mi mettu sempri dicennu e suspirannu: veni! Ora abbarcai. L’urtima vuci jettu e si ‘un mi senti, jè ca ‘un mi vò beni.
In fondo poco importa se mancano comodi mezzi di sussistenza: è sufficiente che lo sposo sia in grado di “mantenere” la moglie e che la sposa porti “lu stigghiu di la casa” (il letto): il resto si accomoderà da sè. Qualche giorno prima delle nozze la sposa con le amiche soleva recarsi al lavatoio per lavare la biancheria del corredo così che per il gran giorno si presentasse ben pulita e candida. Il giorno prima delle nozze avviene l’esposizione del corredo nuziale ovvero « la vagghiata di li robbi.
In un passato ancora recente la cerimonia nuziale in Sicilia era circondata da un alone di arcaica poesia. Occorreva che la sposa venisse preparata. Dentro una tinozza faceva un bagno con acqua nella quale si erano infuse foglie e fiori d’arancio, ma il rito più caratteristico era «la lavanda della testa»: avvolto alla giovane il collo in una tovaglia di lino, la madre scioglieva le lunghe abbondanti trecce alla sposa e ne cominciava l’insaponatura. Veniva adoperata una specie di argilla grassa “a terra sapunaria” la quale, stemperata nell’acqua così da renderla una pasta molle, si stendeva a larga mano sulle chiome, che con essa venivano ripetutamente strofinate: quindi si passava alla risciacquatura con acqua fresca abbondante, le chiome lasciate sciolte sulle spalle si asciugavano ai raggi del sole. Così i capelli in tal modo vigorosamente ripuliti diventavano morbidissimi e splendenti. Essa, durante il tempo che serviva a l’asciugamento, intonava a mezza voce con cadenza ritmata tutta particolare questa orazione che probabilmente non è che un frammento :
La Maddalena gran chiantu facennu li pedi a Gesù Cristu cci vagnava cci li vagnava gran chiantu facennu e cu li trizzi so’ cci l’asciucava. Lu Signuri cci dissi: – Maddalena, t’è pirdunatu, levati di pena! Ssa trizza, ch’asciucasti lu Signuri sempri com’oru chi luci a lu suli.
Così la preparazione della sposa era compiuta e questa poteva indossare l’abito nuziale. Vestiva con diversi abiti secondo i vari paesi: la sposa di Palermo in bianco con un velo sulla testa trattenuto da una corona di zagara fresca. A Palermo per antica consuetudine ci si sposava di notte e un lungo corteo di carrozze nelle quali prendevano posto tutti gl’invitati attraversava la città al lume delle fiaccole; ma nella maggior parte dei paesi non si avevano carrozze e la sposa procedeva a piedi fra un drappello di donne e lo sposo fra un drappello di uomini. In molti paesi della Sicilia i matrimoni avevano luogo a tarda sera e i cortei nuziali come serpenti luminosi si torcevano nelle curve delle anguste strade avviandosi al banchetto preparato nella casa paterna dello sposo:
Arbulu carricatu di cannella faciti tutti largu a stu passari passa lu zitu ccu la verginella li donni ca la vannu a ‘ccumpagnari; la mamma ca la fici tantu bella, lu patri ca cci cunta li dinari; chista è ghiurnata ca nun si scancella dintra sti vrazza miei ti pozzu amari.
La casa degli sposi è per antica consuetudine ornata di fiori, come dice lo stornello siciliano:
Ciuri di rosa. La zita quannu torna di la chiesa trova parata di ciuri la casa.
Vi giungevano a tarda notte. Qui la giovane sposa si spogliava degli scialli di seta che l’ammantavano e dell’oro che l’adornava come una regina: deponeva nel cassone l’abito nuziale; richiudeva il pesante coperchio che nessuno avrebbe riaperto mai più fino al giorno in cui le sue figlie, avrebbero riaperto quella cassapanca per trarne l’abito nuziale e rivestirne, da morta, colei che un giorno lo aveva indossato nel fulgore di una giovinezza che l’amore rendeva più radiosa. Forse il costume di conservare l’abito da sposa ,per abito funebre esprime inconsciamente un profondo concetto religioso: l’amore, eterno legame, simboleggiato dall’abito nuziale, veniva affidato alla custodia della divinità eterna che mette fine alla vita dell’uomo. parabola breve compresa fra i vertici dell’amore e della morte.